Movie challenge: The hateful eight

Quando si parla di Tarantino o si ama o lo si odia. Non esistono le mezze misure con lui. Io gioco nella fazione “amore” nei suoi confronti. Ho amato “Kill Bill”, il primo film suo che vidi con una mente un po’ più adulta (Pulp fiction, lo guardai troppo giovane), e poi il mio preferito, Bastardi senza gloria.

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Dopo le varie vicissitudini dello script di quest’ultimo lavoro, finalmente The hateful eightesce. Quali grandi emozioni mi aspetteranno per questo nuovo film western made in Tarantino?

Se lo avete visto in inglese senza sottotitoli, complimenti! Ho passato la prima ora a sintonizzare l’orecchio sul forte accento americano, prima di riuscire a staccare l’occhio, ogni tanto, dai sottotitoli. Passa la prima ora, i personaggi parlano tra di loro, della guerra nordisti/sudisti, di chi sono ecc. Seconda ora, siamo nella merceria/locanda di Minnie. La gente parla, si presenta, beve, mangia, si riparla della guerra, della giustizia. Ok. Verso la metà della seconda ora, inizia “l’azione” come Tarantino ci ha mostrato altre volte. Ok.

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L’uso, forse l’abuso di auto-citazioni (che può anche permettersi di fare, insomma, se io mi auto-citassi sembrerei solo megalomane, lui è americano, quindi di base megalomane, concediamoglielo), come oggetti illuminati dalla luce divina, la numerazione in capitoli, frasi già usate in altri film (“Di pure addio a tue palle!” grande must del 900), se all’inizio della visione, piace (perchè siamo tutti desiderosi che l’azione diventi violenta), dopo un po’, diventa una situazione trita (e ritrita). Sentivo la tensione salire, minuto dopo minuto, e volevo una svolta, che arrivata quando ormai stavo perdendo le speranze.

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Gli attori, sono stati molto bravi ad essere rozzi cacciatori di taglie e ladroni. John Ruth, Kurt Russel, è stato il mio eroe, lui ed i suoi baffoni. Poi ho guardato “l’inglese”, Oswald Mobray alias Tim Roth, e nella mia mente ho visto Tarantino che prende una decisione per lui difficile: non scritturare Christoph Waltz. Ho trovato una somiglianza indecente, ai personaggi interpretati in precedenza dal nostro simpatico austriaco, addirittura a livello fisiognomico, lo ricordava. Povero Quentin, privato del suo amatissimo.

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Ciao, splendore.

Jennifer Jason Leigh, Daisy Domergue, veramente brava. Come sempre, i personaggi femminili di Tarantino non sono delle donnine indifese o sciocche, ma belve pronte a mordere.

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Musiche di Ennio Morricone, devo aggiungere altro? Se vi capita, guardate quanto è bello il vinile della colonna sonora!

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Visivamente ben curato, con belle inquadrature care a Quentin (visione dal basso dal pavimento, personaggi che si allontanano nel nulla visti da una porta, vi ricordano qualcosa?)

Quando avrete terminato la vostra visione, soffermatevi ancora una volta sul bel poster della locandina. Guardatelo attentamente. Quattro personaggi che avanzano verso la locanda, ed altri quattro che gli vanno incontro. Dopo che mi è stato fatto notare, ho compreso quasi il senso del film.

Soundtrack & Behind the scene

Movie Challenge: Mad Max – Fury Road

Credo che buona parte del pubblico maschile abbia visto questa pellicola, mentre le fanciulle abbiano pensato, come me un film dove la gente strana si insegue nel deserto? Mah

QUANTO MI SBAGLIAVO.

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Questa recensione è voi/noi ragazze, che non abbiamo voluto cedere alla visione di un film nel deserto, Mad Max – Fury Road.

Ricordate Babe – maialino coraggioso Happy feet di George Miller (ed anche L’olio di Lorenzo, quanti pianti, e l’originale Mad Max)? Ecco, è lui che ci ha donato questa perla. Ho dato al film 5 minuti per convincermi. Mi ha convinto dopo il secondo minuto. Non fate come me, non giudicate i film solo dai trailer italiani.

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Mad Max – Fury Road, è un mashup tra Tarantino, per tipologia di inquadrature, ed un grosso fumettone tamarro che prende vita. La trama ci viene spiegata all’inizio del film, per poi buttarci subito nell’azione, tutto molto in stile anni 80. Veniamo catapultati in un mondo che si è autodistrutto da solo (non molto distante da un futuro probabile), dove bande di derelitti sono guidati da uomini senza scrupoli, che fondano il loro potere sull’idolatrare un’idea di uomo/dio, capace di donare loro acqua e benzina.

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Per tutte coloro che stanno cercando un nuovo idolo femminile da seguire, eccovi l’imperatrice Furiosa, Charlize TheronMonster), lei con la sua autocisterna, il suo braccio meccanico ed il grasso da guarnizione che le protegge la fronte dal sole, si fa capo e salvatrice di giovani donne, le spose, di Immortan Joe, il leader della cittadella. Una vera belva che guida un camion, tira calci e pugni come una vera dura. Eccovi servito il vostro nuovo idolo femminista.

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Gli inseguimenti non sono per nulla noiosi, anzi, sei lì che guardi il trucco, i costumi, i suoni, e se preso dalla battaglia che avanza e imperversa, tifando per Furiosa e le sue ragazze. Non mancano scene simpatiche, niente a che vedere con le battute/gag in stile Marvel (grazie al cielo!)

Le inquadrature sono ben curate, come delle vignette di un fumetto, e l’uso dei colori, soprattutto nelle scene notturne dona quel qualcosa in più (un filtro 100% blu). Bello il contrasto degli abiti delle spose, bianchi e semplici, rispetto agli abiti di pelle ed accessori cromati degli altri.

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La colonna sonora stessa, di Tom Holkenborg, da la carica negli inseguimenti, mentre ascolti i suonatori di tamburi taiko che accompagnano un chitarrista metallaro ceco che spara fiamme dalla testa della propria chitarra. Il ritmo incalzante, ti porta a muoverti e a canticchiare il motivetto durante la giornata. Ma troviamo anche musiche più drammatiche ed intime, nei momenti in cui conosciamo meglio la psiche dei personaggi.
La cura per gli effetti sonori è notevole.

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Un film da vedere e rivedere, per l’abbondanza di dettagli e di cura, nel makeup e negli equipaggiamenti di tutti i personaggi. Una fuga verso la libertà, guidata dalla speranza e dalla voglia di cambiamento. Finirete di guardarlo e vi sentirete più forti, più consapevoli di voi stesse e, forse, vorrete anche voi dipingervi la fronte di nero e gridare fuori dal finestrino della vostra macchina: “AL VALHALLA!”

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“What a lovely day!”

Troverete il dvd/bluray qui, ed ascoltare la colonna sonora a questo link

 

Movie challenge: Steve Jobs

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E’ tutto così bianco in questa copertina! Aiuto!

Steve Jobs“, regia di Danny Boyle (Trainspotting, The Millionare), ci immerge subito in un mondo fatto di presentazioni di nuovi prodotti e di tutto ciò che avviene dietro le quinte. Non c’è bisogno di dare grosse spiegazioni, nè di un po’ di storia dell’evoluzione del marchio Apple. I personaggi ci parlano come se noi conoscessimo gran parte delle vicissitudine finanziarie ed azionistiche. Ti senti estraneo mentre la pellicola scorre, come stessi osservando il tutto da una serratura o origliando da una porta.

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Michael Fassbender/Jobs l’uomo che doveva sempre dare spiegazioni/ confrontarsi prima del lancio dei suoi prodotti, povero caro!
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Devo ancora capire se il film mi é piaciuto o meno, poiché le scene di scontro/confronto si susseguono le une alle altre, con picchi di arrabbiatura altalenanti tra “bufera” e “parzialmente nuvoloso”.

Le musiche di Daniel Pemberton, soprattutto It’s not working, hanno sottolineato questo stato di ansia, utilizzando suoni gravi, a ritmo serrato, riproducendo rumori e suoni cybernetici. I primi 10/15 minuti ci interroghiamo se un computer saluterá o meno il pubblico, e tu sei li che dici: “Oddio, oddio, il mal di vivere é potente”. Se l’ intenzione era quella di farti avvertire lo stress, ci sono riusciti benissimo.
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A fianco del nostro protagonista, la vincitrice del golden globe Kate Winslet (sempre bravissima, ho ancora le lacrime per The reader), spalleggia Fassbender, in scambi arguti di battute e comprensione umana. Fassbender si dimostra, ancora una volta un attore versatile ed abile (già in Inglorious Bastards l’avevo amato, ma dopo Macbeth abbiamo raggiunto un livello successivo, questa scuola inglese che sforna talenti senza ritegno)
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Ho apprezzato il fatto che venisse mostrato un dualismo Jobs/crew lavorativa e Jobs/famiglia, dove ogni tanto traspariva il lato piú “umano” (per una manciata di secondi). Avrei voluto che venisse maggiormente sottolineato il rapporto Jobs/padre, ma forse ne hanno parlato giàaltri film
Belli i flashback tipo messaggi subliminali, rendevano bene l’idea del pensiero/ ricordo che scorre velocemente. E’ tutto molto blu nelle conferenze, nei dibattiti, per poi scoprire un certo “calore” nelle scene con Lisa.

Se avete voglia di auto-indurvi dello stress, ascoltate la colonna sonora qui, leggervi l’autobiografia autorizzata di Walter Isaacson, dalla quale Boyle ha preso spunto, ed un intervista al bel Fassbender dove risponde ad alcune domande.

 

 

Movie challenge: The Danish girl

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The danish girl“, di Tim Hooper (Les Miserables, Il discorso del re), un film che ho molto atteso e che non ha deluso le aspettative. Sarà grazie a Eddie Redmayne (chiamato amichevolmente Marius, dopo la visione dei Miserabili) ed alla sua interpretazione molto toccante. Ma la vera scoperta é stata Alicia Vikader (Ex Machina, Kitty in Anna Karenina).

Ho amato il suo personaggio, molto umano e non distaccato.
La caratterizzazione dei due personaggi principali è andata di pari passo, scoprendo Einar anche attraverso gli occhi di sua moglie Gerda.

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Entriamo nella vicenda da subito, senza troppi preamboli e scene inutili, e questo è stata una scelta vincente. Se vi aspettate di vedere drammi, lacrime per la presa di coscienza del proprio io, non é cosí. La scoperta del proprio io e della consapevolezza di voler essere qualcun altro avviene velocemente, senza troppe paure o angosce, cosa che ho indubbiamente apprezzato.
Avrei voluto dare più spazio ai diari di Einar, dal quale David Ebershoff, l’autore del romanzo omonimo, ha attinto informazioni per ispirarsi, e vorrei che venisse pubblicato in Italia.

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Il trattamento dei colori, quasi sempre sui toni del blu e del verde nelle scene in Danimarca, sembrano riprendere i colori stessi utilizzati da Einar nelle sue opere, per poi diventare più caldi, come quelli usati nelle opere della moglie, dove Lili/Einar candida protagonista di un’epoca che cambia, che transita, domina la scena.
Infine, i colori sembrano mescolarsi, ora caldi ora freddi verso le scene finali, raggiungendo una medietà complementare, così come le vite vissute dai protagonisti.

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La colonna sonora di Alexandre Desplat (lo stesso di Grand Budapest Hotel dove si è aggiudicato l’oscar come miglior colonna sonora) variegata, da motivi più cupi e drammatici ad allegri waltzer.

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Il cast é davvero stato notevole. La storia scorre attraverso gli occhi dei due personaggi che si fondono e si separano, per poi ritrovarsi indissolubilmente legati. Non ci sono molti dialoghi sulla scelta presa da Einar di diventare Lili con Gerda. Quello che poteva sembrare un’ostacolo o un blocco causato dall’incomunicabilità, viene riempito dalla comprensione e dall’amore incondizionato, non per un corpo, maschile o femminile, ma per la persona e per la sua anima. Il messaggio che Gerda ed Einar ci donano è toccante.

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la storica Lili e Eddie.

Un film che dovrebbe esser fatto vedere a tutti coloro che non hanno ben idea di cosa possa essere una transizione (se pensiamo che è tratto da una storia vera e siamo a cavallo tra gli anni 20 e 30), e che dietro al processo, non c’è un desiderio egoista o una malattia, ma una persona che prova emozioni, che vive, soffre, ama e spera in un futuro differente.

Qui potete trovare il romanzo, mentre qui la colonna sonora. Se vi interessa, cercatevi la storia e le opere di Gerda Wegener così incontrerete certamente Lili.

Movie Challenge: Brooklyn

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Adoro questa locandina

Il primo commento dopo la visione di Brooklyn, tratto dal romanzo omonimo di Colm Tóibín, è stato: “Brooklyn il film che non devi e devi guardare se stai per partire”.

Non lo devi guardare perchè ti fa riflettere su quello che stai lasciando, nel bene e nel male. Lo devi guardare per avere speranza e fiducia nel salto nel vuoto che stai per compiere.

Il film di John Crowley,  è in lista sia per i Bafta che per gli Oscar in svariate categorie, tra cui: migliore attrice protagonista (Saoirse Ronan, ve la ricordate in “Grand Hotel Budapest?!),best supporting actress (Julie Walters, e lei ve la ricordate in “Mamma Mia”?!), costumi, makeup/hair, sceneggiatura non originale. Tra l’altro ha già partecipato a molti altri festival nel 2015 dove ha già vinto alcuni premi.

Il tema del “distacco” è stato trattato in maniera molto umana, molto vicina alla realtà, senza mai esagerare in esasperate scenate, tutto molto controllato. Non ci si lascia andare al melodramma, a fiumi di lacrime. Forse perchè sono irlandesi e non italiani (?), o sarà dovuto alla regia inglese?

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Alcuni fotogrammi del film sono davvero ben curati e ben studiati come ad esempio, quando la protagonista ed il suo compagno vanno a Coney Island (il colore menta/azzurrino della struttura architettonica mi ha conquistata, senza contare la composizione perfetta dello scatto), per poi essere ripresa nelle scene in Irlanda. I contrasti e dualismi città/paese, grattacieli/cemento/case basse/verde sono ben resi anche dall’uso del colore.

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La nostra protagonista Eilis che gira per il paese natio vestita e con atteggiamento “americano” fa da enorme contrasto a tutto quanto. Le tensioni emotive condiscono il tutto. Lettere, amore, morte, scelte ecco come lo descriverei se dovessi fare un riassunto brevissimo.
Costumi e acconciature, soprattutto per Eilis, ben curate, ma sono un po’ di parte amando lo stile anni 50.

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Un film piacevole, non ci sono salti senza senso, scene inutili. Tutto scorre. Forse poco “coinvolgente”, proprio perchè molto pacato e controllato, direi realistico. SI vede che non è fatto da un’americano XD L’america è vista sì, come una terra di speranza, ma senza sovraccaricare l’idea stessa, senza esaltarla a dismisura.

La colonna sonora di Michael Brook mi è piaciuta, con l’uso principale di pianoforte/violino, con sonorità dalle ballate irlandesi e la mescolanza di suoni di strumenti tipicamente americani, come il banjo. Questo mash-up è vincente. Il canto gaelico alla mensa è meraviglioso

Come sempre, qui potrete trovare dei Behind the Scene interessanti, la preview della colonna sonora, ed il libro da cui è tratto.

Movie Challenge: Carol

Questo nuovo anno mi mette di buon umore con le sfide ed i cambiamenti che attendono. Riprendo a scrivere su questo blog un po’ per dare voce ai miei pareri che aleggiano nella mia mente.
Ad esempio ho deciso di guardare il maggior numero di film candidati ai Bafta ed agli Oscar. Una sfida non da poco, visto che manca meno di un mese ad entrambe le premiazioni. Mi è sempre piaciuto il cinema, soprattutto quei film che nessuno calcola, che passano un po’ in sordina. Ovviamente guardo anche i blockbuster, ma sono un’amante delle belle scenografie, degli ottimi costumi, delle musiche che ti segnano e di una fotografia eccellente (ed anche degli attori/attrici che ogni tanto mi sogno la notte in sogni senza alcuna logica, ma dalle forte emozioni).

Trovo qui lo spazio per scrivere la mia rubrica Giulia goes to Hollywood (sto ancora lavorando sul nome della rubrica).

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Ho iniziato guardando “Carol” di Todd Haynes. Le interpretazioni delle due attrici, Cate Blanchett (Carol Aird) e Rooney Mara ( Therese Belivet), entrambe candidate come migliore attrice protagonista e migliore coprotagonista, sono ottime. Leggendo in seguito il libro dal quale è tratto il film (“Il sapore del sale” successivamente “Carol” di Patricia Highsmith), ho compreso meglio l’atteggiamento di Therese.

Nel libro la tensione provata dalla ragazza, l’incertezza verso il futuro, sulle decisioni da prendere, dei sentimenti contrastanti, sono stati resi da Rooney con i suoi sguardi ed i suoi silenzi. I silenzi hanno parlato più delle battute. Cate Blanchett splendida donna borghese, un’ottima scelta, con la sua voce profonda ed un atteggiamento tra l’altezzoso e lo scherno. Sarah Paulson interpreta Abby (sembrava direttamente uscita dalla seconda stagione di American Horror Story). Forse il suo personaggio è stato quello più sacrificato, rispetto al libro, ma si sa, i tempi filmici sono differenti da quelli di un libro.
Le musiche originali di Cartel Burwell, ci accompagnano nella visione (le variazioni sul tema principale dell’opening non annoiano, ma sembrano diventare sempre più intime, più “dolci”), senza contare pezzi classici come quello di Billie Holiday Easy living.

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Adoro questo fotogramma. E’ tutto così ben equilibrato, decadente un ossimoro fatto dall’arredamento, dalla carta da parati, con il personaggio di Carol, ora privata dei suoi vestiti borghesi, ma comunque dignitosa ed elegante.

E’ un film che ho riguardato più volte, sia prima di leggere il libro sia dopo. Ovviamente avrei voluto più scene, per mostrare meglio il cambiamento emotivo in Therese prima e dopo l’avvento di Carol (anche se ho avvertito molto bene il “male di vivere” mentre lavorava nei grandi magazzini Frankenberg). Ho apprezzato la scelta di non farla essere scenografa, ma fotografa, filmicamente ha reso molto. Seguendo alcune interviste Todd Haynes ha dichiarato che la “gestazione” di questo film è durata 15 anni, incredibile! Le tempistiche di Hollywood mi lasciano perplessa. La coppia Haynes/Blanchett lavora bene (“Io non sono qui”, se non lo avete visto, guardatelo adesso). Rooney Mara personalmente una scoperta. Ricordo che, quando guardai il trailer, pensai che mi ricordava una giovane Audrey Hepburn.
La scelta dei costumi, delle ambientazioni mi ha catapultata negli anni 50, facendomeli vivere con gli occhi. Ora vorrei una vecchia pelliccia di visone per fare una fotografia ispirata al film.

 

Alcuni bozzetti dei costumi di scena realizzati da Sandy Powell, anche lei nominata agli Academy Award.

Leggendo commenti qua e là, ho letto che molti lo hanno trovato noioso e lento. Credo che questa sensazione sia scaturita dal fatto che veri e propri colpi di scena non c’è ne siano. L’opera della Highsmith vede come protagonista Therese ed i suoi pensieri, le sue paure, i suoi se ed i suoi ma. Rendere visivamente ciò che viene pensato, come un turbinio di informazioni che guizzano di qua e di là sarebbe stato complicato.
Credo che Haynes abbia optato per la soluzione diametralmente opposta, quello di rendere il tempo e le azioni lentamente. E’ come se tutto fosse scandito dal battere delle ciglia a rallentatore. Non ho trovato questa scelta noiosa, credo che rendesse il giusto pathos alle vicende.

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Se siete come me, che amate il dietro alle quinte, questo video potrebbe interessarvi.
Per essere un film di genere,  sono contenta che sia stato proposto al vasto pubblico (o in quelle sale che non lo hanno messo in proiezione per 3 giorni, come è capitato qui da me). Il trailer italiano non lasciava intendere molto sulla trama…forse questo ha ingannato gli spettatori meno informati.

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“Gennaio.

Era ogni genere di cose, ed era una cosa sola, come una solida porta. La sua temperatura gelida chiudeva la città in una capsula di grigiore. Gennaio era una serie di momenti, ed era un intero anno. Gennaio faceva piovere istanti, e li cristallizzava nella memoria: la donna che lei aveva visto scrutare ansiosamente i nomi, alla luce di un fiammifero, in un androne buio, l’uomo che scarabocchiava qualcosa e porgeva il pezzetto di carta all’amico prima che si separassero sul marciapiede, l’uomo che faceva tutto un isolato di corsa per prendere un autobus e ci riusciva. Ogni azione umana sembrava avere un che di magico. Gennaio era un mese bifronte, tintinnante come i campanelli di un giullare, scricchiolante come la neve incrostata, puro come qualsiasi inizio, arcigno come un vecchio, misteriosamente familiare e tuttavia ignoto, come un vocabolo che si può quasi ma non del tutto definire” [“Carol” – Patricia Highsmith]

Non so ancora giudicare se darei il mio personale oscar a loro due, ma una cosa è certa: se vincesse Cate Blanchett spero che venga invitata da Ellen DeGeneres. Se non vi è mai capitato di vedere le sue interviste, prendetevi qualche momento per cercarle. Scoprirete che dietro all’algida bionda si nasconde una donna che fa un sacco di battute.

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Consigli per gli acquisti (devo trovare un titolo decente anche per questa sezione)

“Carol” – Patricia Highsmith
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Eugene Smith, mondo d’ombra

A cosa serve una grande profondità di campo se non c’è un’adeguata profondità di sentimento?

Eugene Smith

William Eugene Smith nasce il 30 dicembre 1918 a Wichita, nel Kansas.
Il suo avvicinamento alla fotografia avviene in tenera età, grazie alle madre, amante della pellicola.
Vive un’esistenza “normale”; fino a quando un fatto tragico sconvolge la sua vita: il suicidio del padre durante gli anni del liceo.
Smith, da allora, comincia ad essere quasi ossessionato dalla macchina fotografica, ma grazie ad esso, riesce a superare la perdita.
Il suo talento è ben visibile fin da ragazzo, lavora per il giornale locale, nella rubrica sportiva, si iscrive ad una scuola specializzata in fotografia, ma la lascia dopo i primi sei mesi. Si trasferisce a New York dove comincia a collaborare con Newsweek, ma anche come freelancer, con New York Times, Harper’s Bazaar e Life.

The Second World War, Iwo Jima, Sticks and Stones

Soldier in Okinawa in 1945

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Il periodo con Life porta Smith nelle zone di guerra, nel Pacifico (Saipan, Okinawa, Iwo Jima), per terra, mare ed aria. La sua carriera venne interrotta nel 1945, durante l’invasione di Okinawa. Una granata compromise il suo volto e le sue mani seriamente. Dopo numerosi ricoveri ed interventi chirurgici, il desiderio di ritornare a scattare è forte, ma, questa volta, ciò che vuole trasmettere tramite le proprie immagini sono concetti come la speranza, le gioia, la coscienza sociale.

“Il giorno in cui ho provato per la prima volta a fare una fotografia, riuscivo a stento a caricare il rullino nella macchina fotografica. Eppure ero deciso che la prima fotografia sarebbe stata un contrasto tra le fotografie di guerra ed avrebbe parlato dell’affermazione della vita”

The walk to paradise garden

Viene “alla luce” l’immagine di due bambini, i suoi figli, che emergono da una foresta oscura, “The walk to Paradise Garden”. In questo periodo Smith produce lavori come Country Doctor, Nurse Midwife, The Spanish Village. Smith si immerge completamente e totalmente nella vita dei propri soggetti, un approccio del tutto nuovo per i tempi. Life pubblica molti di questi lavori, anche se non riesce del tutto a capire ed appoggiare il suo metodo fotogiornalistico. Le tensioni divennero tali da spingere Smith a lasciare Life, per abbracciare Magnum, la quale appoggiava e sosteneva totalmente la sua visione fotogiornalistica.

Serie “Country Doctor”

Serie “Country Doctor”

Serie “Country Doctor”

Smith continua a produrre immagini d’autore, supportato anche dalle borse di studio Guggenheim. Uno dei suoi progetti più titanici, riguarda la città di Pittsburgh. Vennero realizzate 11 mila immagini fotografiche, ma nessuna di esse vide la luce, provando scompiglio all’interno di Magnum. Il progetto Pittsburgh lasciò fisicamente, mentalmente e finanziariamente Smith esausto.

Pittsburgh Photographs

Pittsburgh Essay, (Church)

Decide di lasciare Magnum e di trasferirsi a New York, dove produce una serie di immagini realizzate dalla propria finestra.

The Jazz Loft Project

 

821 Sixth Avenue in New York

1971 inizia il progetto Minimata, un piccolo villaggio di pescatori in Giappone finanziato da Hitachi. Le acque del villaggio erano ricche di mercurio, a causa dell’industrializzazione. Generazioni intere di persone portavano sul loro viso, i segni devastanti di quello scempio.

Tomoko Uemura in Her Bath

Aileen Mioko Smith co-authored with W. Eugene Smith

L’uomo riceve numerosi premi, viaggia per insegnare fotografia ed approda a Tucson, Arizona, nel 1977, per insegnare all’università. Un anno dopo, un ictus celebrale stronca la vita di Eugene Smith.

“Sono sempre combattuto con l’atteggiamento del giornalista, che è un registratore di fatti, e l’artista, che spesso è necessariamente contro i fatti. La mia principale preoccupazione è per l’onestà, soprattutto l’onestà con me stesso”

L’animo di Smith è sempre stato molto irrequieto, e questa sua tensione, era facilmente leggibile, nelle proprie immagini. Bianchi e neri netti, forti, dove la luce emerge a fatica, soffocata, ma allo stesso tempo intimi, come se noi spettatori stessimo lì, al suo fianco ad osservare la scena. Dopo l’incidente del 1945, Smith diventa sempre più dipendente da alchool ed anfetamine, la depressione, insieme a momenti di grandiosità si alternano come in una danza per tutta la sua vita.

Letture:  W. Eugene Smith, ed. Contrasto

Margaret Bourke White, sguardo su un mondo nascosto

“Margaret, sei stata invitata a venire al mondo, di questo dovrai essere sempre fiera”

 

Ecco come comincia “Il mio ritratto”, la biografia di Margaret Bourke White (1904-1971), fotografa statunitense che può annoverare diversi traguardi tra cui: essere stato il primo straniero fotografo ammesso a scattare foto in Urss, la prima corrispondente donna e la prima donna fotografa del settimanale Life.

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Margaret si avvicinò alla fotografia intorno ai vent’anni, prima la sua più grande passione era la biologia. Da bambina, la madre le faceva trovare libri riguardanti gli argomenti naturali, le permetteva di allevare cento bruchi dentro una scatola sulla finestra, ed altre piccole gentilezze che fecero amare sempre di più le materie scientifiche. Non era una ragazza popolare a scuola, una di quella che non invitavi alle feste.

A 19 anni ci fu il suo riscatto, sposò un insegnante di ingegneria. Lui decise di forgiare il loro anello nuziale con delle pepite che avevano trovato in un negozio in città. Il giorno nella prova dell’anello, l’uomo, nel rendere l’oggetto perfetto lo ruppe, forse il destino stava dando un messaggio a Margaret, che lasciò il marito dopo 2 anni di matrimonio.

La fotografia arrivò inaspettata, con una vecchia macchina fotografica regalatale dalla madre, dal valore di 20$ con una lente incrinata. Non riuscendo a trovare un lavoro come cameriera o bibliotecaria, decide di vendere le fotografie del campus e quelle naturali scattate vicino al lago Cayuga (New York). Le sue foto erano apprezzate, anche se non del tutto capite, e finì per occuparsi delle copertine del giornale per gli exstudenti.

Margaret ha un dono per la fotografia di architettura, riuscendone a mostrare anche ai profani, la bellezza delle linee, dei giochi di ombre, dei pieni e dei vuoti.
La fotografia le stava dando molte più soddisfazioni di quante gliene avrebbe date la biologia. Ed era solo l’inizio.

Si trasferì a New York, con il suo portfolio fotografico, decisa a mostrarlo a tutti gli studi di architettura della città. Le venne suggerito il nome di York & Sawyer e quello di Benjamin Moskowitz. L’uomo inizialmente la ignorò, ma scorse con la coda dell’occhio, la prima fotografia che Margaret teneva in mano, la torre della biblioteca del campus. Le diede un lavoro.

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La carriera della Bourke era ormai avviata, la sua ricerca verso le strutture portanti della società la spinse verso quella industriale delle acciaierie. Le industrie non erano state create per essere belle, eppure, nelle loro linee semplici, squadrate, c’era bellezza: erano lo specchio di un’epoca, di una società, affascinanti e drammatiche.

wind tunnel construction, Ft. Peck, Montana

Dam at Fort Peck, Montana

Nell’estate del 1929, un telegramma, la invita a recarsi a New York, il mittente è Henry R.Luce del Time.
Insieme ad altri collaboratori vogliono realizzare un nuovo magazine legato al mondo dell’economia e dell’industria, il Fortune.

Margaret “si arrampica” a 250 metri di altezza per fotografare il nascente Chrysler building. Non ha paura a stare ad una tale altezza, forse memore dei giochi che la madre le faceva fare da bambina per affrontare le proprie paure, o forse seguendo i consigli imparati nelle acciaierie, dove anche se ti trovavi a 300 metri di altezza, dovevi fingere che fossero 3 metri, rilassandoti e lavorando con calma, poichè i problemi erano esattamente gli stessi.

Aerial view of a DC-4 passenger plane flying over midtown Manhattan

Questo era solo un “assaggio” di quanto ho potuto leggere di questa straordinaria fotografa e della sua vita, la sua biografia potete trovarla su Amazon.

Quanto vorrei leggere queste storie non solo su libri specializzati, ma anche in testi scolastici, o documentari televisivi. Quanto vorrei che queste personalità fossero di ispirazione e guida per tante altre persone. Mi sembra che troppo spesso diamo per scontato la straordinarietà di certe azioni,  come se non riuscissimo a considerare l’azione legata all’epoca in cui essa è stata fatta.
Se voi lettori, conoscete altre storie “straordinarie” oppure volete condividere con me nomi, curiosità su autori/trici fotografi/e, sarei lieta di leggere le vostre segnalazioni, per potermi documentare e magari scriverne una recensione.

 

La camera chiara

Da qualche giorno ho intrapreso la lettura de La camera chiara, di Barthes, un saggio anonimo in una libreria enorme, un nome che ai più, dice nulla. Copertina grigia, decorata con dei quadrati blu, uno cobalto ed uno nero. All’interno le pagine, stampate su carta lucida, si susseguono con poche immagini. E’ incredibile come questo piccolo volumetto, possa contenere tanti punti su cui riflettere. Mi ha colpito molto l’incipit del libro:

Un giorno, molto tempo fa, mi capitò sottomano una fotografia dell’ultimo fratello di Napoleone, Girolamo (1852). In quel momento, con uno stupore che da allora non ho mai potuto ridurre, mi dissi: “Sto vedendo gli occhi che hanno visto l’imperatore”. A volte mi capitava di parlare di quello stupore, ma siccome nessuno sembrava condividerlo, e neppure comprenderlo (la vita è fatta di piccole solitudini), lo dimenticai”

Inizia così la ricerca di Roland Barthes nei meandri della fotografia, una ricerca ontologica piuttosto che legata alla storia stessa della tecnica fotografica o dei suoi autori. Lo scopo dell’autore è di capire il perchè certe foto suscitano in noi un’emozione, un qualcosa che le rende speciali.
Barthes ci parla della figura dell’operator, cioè colui che sta facendo la fotografia, il cui compito è quello di sorprendere, nel senso di creare uno shock, cogliere l’attimo. Non è forse vero che nelle foto in cui non siamo in posa, gli scatti rubati, siano raffigurazioni del vero? Il fotografo/operator riesce a rivelare ciò che era ben nascosto, anche a noi stessi, di cui non si era consapevoli.
Da qui scaturiscono una serie di sorprese: quella del raro, cioè qualcosa di mai visto (un bambino con la coda, l’uomo con due teste, il numen, ovvero quando viene congelato e riprodotto un movimento nel punto preciso della sua corsa, in cui l’occhio umano non riesce a fissarlo, la prodezza, le sovraimpressioni.
Barthes paragona l’operator ad un acrobata che sfida le leggi del probabile e del possibile.
Un’altra figura è quella dello spectator, ovvero noi tutti che fruiamo, consapevolmente o meno delle immagini. Infine c’è colui che è fotografato lo spectrum.
Altro punto fondamentale della ricerca dell’autore era capire quali immagini provocassero in lui piacere e soprattutto perchè.

[…] constatavo che certune provocavano in me gioie sottili, come se rinviassero a un centro sottaciuto, a un bene erotico o straziante, nascosto dentro di me ( per quanto apparentemente sensato fosse il loro soggetto); e che altre, al contrario mi lasciavano talmente indifferente che a forza di vederle moltiplicarsi, come malerba, provavo nei loro confronti una sorta di avversione, d’irritazione: ci sono dei momenti in cui io detesto la fotografia […]

Barthes consta anche che non amava tutte le foto di un’unico autore.
Giunge ad una soluzione del suo piacere che, personalmente, trovo bellissima: avventura.
In alcune foto avviene questa avventura, in altre no, quella cosa che ci fa fare tilt dentro di noi, che spicca sulle altre immagini. E’ come se la fotografia si animasse e, in questo modo, anima il mio animo, ed è questo che fa ogni avventura.

Koen Wessing – Nicaragua: l’esercito pattuglia le strade, 1979

Nell’immagine di Koen Wessing, la foto esisteva, per la co-presenza di due elementi esterni alla vicenda, che non appartenevano allo stesso contesto: i militari e le suore.

Questo non rendeva la foto migliore né una particolare curiosità. Questa foto esisteva e creava interessamento, lo studium. Grazie allo studium noi ci interessiamo a molte immagini, siano esse testimonianze, che quadri storici. Questo avviene quando sono io ad andare in sua ricerca, ma può accadere anche che dalla scena stessa di un’immagine, come una freccia, io rimanga colpito: il punctum.

Lo studium possiamo notarlo in quelle fotografie di persone per strada, che indossano abiti dell’epoca in cui sono vissute. La fotografia può darmi queste informazioni.

William Klein – 1° maggio a Mosca

Il punctum è, generalmente, un particolare, che possiamo notare solo dopo aver guardato un po’ l’immagine, in silenzio se fosse possibile, in modo tale da poter dialogare con essa.
William Klein fotografò dei bambini in un quartiere italiano di New York: l’immagine è divertente, ma ciò che colpisce l’autore sono i brutti denti dei ragazzi.

William Klein – New York, 1954, il quartiere italiano

La camera chiara è un libro che nasconde molte avventure per capitani che hanno voglia di intraprendere viaggi insoliti dal foro stenopeico della macchina fotografica.

Dimmi come ti rifletti

La nostra immagine riflessa nasconde e rivela un’io che abitiamo e conosciamo, spettro reale e veritiero della nostra esistenza. L’autoritratto affascina, seduce, cela, mostra, indaga. In una semplice immagine mostriamo noi stessi o ci mimetizziamo con oggetti e suppellettili che raccontano una parte del nostro viaggio.
Nell’autoritratto non vediamo mai il fotografo, che ritrae, ma soltanto la sua raffigurazione, ed essa conferisce sia autorità a se stessa che alla propria arte.

Lotte Jacobi

Lotte Jacobi si ritrae con il pulsante per lo scatto a distanza, cordone ombelicale dal mezzo che le dona vita, ma l’immagine è riflessa allo specchio, pensiero che si ripete duplicandosi.

Germaine Krull

Germaine Krull occulta il proprio viso e il nostro sguardo. Sottolinea che, al centro della sua opera d’arte, è la fotografia, con essa il suo occhio, il suo modo di vedere. L’apperecchio fotografico è esso stesso Germaine Krull, un corpo macchina, fatto di ingranaggi lenti, automatismi, e non la donna fatta di carne.

Diane Arbus

Capita che il corpo stesso entri a far parte del proprio autoritratto. Diane Arbus intreccia il proprio piacere narcisistico ed esibizionista del corpo femminile ad uno sguardo estraneo. Lo specchio non è perfettamente centrale, quasi ad indicare che aldilà di esso c’è dell’altro. La fotografa sceglie di raffigurarsi seguendo il linguaggio iconografico tradizionale: la donna deve piacere ad uno spettatore immaginario. In un’unico scatto la Arbus ricopre tre ruoli: quello dello spettatore, dell’oggetto osservato e della fruitrice che gode del proprio operato.

A volte si parla di mascherata, di messa in scena. Questa espressione era spiegata nel saggio Femminilità come mascherata di Joan Rivière, nel quale si avanzava la tesi che le donne di successo amavano vestirsi in maniera ultrafemminile per prevenire le paure dei loro colleghi maschi, un mascheramento di illusori attributi maschili. Questo concetto possiamo riportarlo anche in fotografia dove vengono seguiti, spesso, stereotipi di abbigliamento specifici (il barbone vestito male, con un cappotto cencioso ed un cappello di lana, quello della vamp con abito succinto e scollatura vertiginosa, ecc), di atteggiamenti gestuali, di posture del corpo. Ecco la mascherata che va in scena. La donna indossa sempre un ruolo, è un mettersi in mostra per essere percepita con un qualche significato riconosciuto dal contesto culturale, ma contemporaneamente è rimanere sconosciute.
Lee Miller si auto rappresenta come oggetto d’uso, imitando con il corpo e la postura le dive del suo tempo. Claude Cahum ci mostra un io truccato da pagliaccio, in duplice presenza.

Claude Cahun

Come dimenticare, infine, che il ritratto classico era considerato un inquietante annunciatore di morte? La fotografia lega a sé l’affermazione del rendere immortale un soggetto, e ribadisce, in ogni istante, che il nostro presente diventa passato. C’è chi come Meret Oppenheim ha condotto all’estremo questo significato, proponendo come autoritratto la radiografia del proprio cranio. Il gesto è ironico. Più si penetra in profondità nell’intimo dell’essere umano, si finisce per trovare soltanto ossa, mentre la verità essenziale della persona ritratta continua a sfuggire. Il cranio è traccia visuale per la Oppenheim: la sagoma dei munili, delle dita scheletriche, trasmettono vitalità.

Meret Oppenheim

E voi, che tipo di autoritratto fareste?